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«SIAMO I CUSTODI DELLA CUCINA DI FIRENZE»

Intervista a Paolo e Andrea Gori, quarta generazione dietro ai fornelli e alle bottiglie della storica trattoria Da Burde

di Benedetto Colli

Paolo è la mente e le mani dietro a tutti i piatti che escono dalla cucina. Ad animare la sala ci pensa Andrea, sommelier (ha vinto i titoli di miglior sommelier AIS di Toscana nel 2006, vicecampione europeo a Londra nel 2009 e ambassadeur de Champagne 2011 per l’Italia), giornalista, scrittore, blogger e organizzatore dell’evento God save the wine. I due fratelli sono la quarta generazione della famiglia Gori a portare avanti la storica trattoria fondata 120 anni fa alle porte di Firenze. E se si vuole parlare della storia enogastronomica dell’Atene d’Italia, è qui che bisogna venire: Da Burde, in via Pistoiese.

Nella vostra cucina, quanto è importante la tradizione?
Paolo: «La nostra cucina è la tradizione. È sia la colonna portante che la missione della nostra trattoria. Oggigiorno, l’offerta gastronomica è infinita: street food, etnico, fusion, vegetariano, molecolare… In questo panorama, se non fossimo noi osterie a conservare i prodotti, i piatti e le tecniche di un tempo, chi lo farebbe? Siamo pieni di ricettari medievali e rinascimentali in cui si riportano i piatti d’epoca, ma nessuno è più capace di eseguirli. È il “quanto basta” a fregarci: quali sono le quantità e i tempi giusti? Se un piatto smette di essere cucinato e mangiato, si perde per sempre, e con esso si estinguono un sapore e una memoria. In fondo, i piatti della cucina popolare sono i best seller che i secoli hanno prodotto. I classici non sono altro che innovazioni riuscite».

Quali ricette toscane un turista deve assolutamente provare?
Paolo: «Le zuppe. Sono piatti unici della tradizione verso cui abbiamo tanta cura. I visitatori pensano alla Toscana come alla terra delle grandi carni, ma queste sono ricette naturalmente vegetariane tipiche della nostra dimensione familiare».
Andrea: «Anch’io ci terrei che i turisti scoprissero le nostre zuppe. Sui secondi, consiglierei le lunghe cotture, come lo stracotto. Inoltre, abbiamo un’attenzione particolare per la materia prima: nel nostro menù si trovano sempre il lampredotto, il peposo e la trippa, perché riteniamo sia doveroso lavorare l’animale nella sua interezza, senza sprechi inutili».

Qual è la caratteristica saliente della cucina fiorentina?
Paolo: «La Toscana è una regione cerniera tra il Nord Europa e il Mediterraneo. Abbiamo quindi una cucina che è un incontro tra le due civiltà, con intrusioni mediterranee di prodotti vegetali su una base nordica di carne e cacciagione. Un’altra caratteristica saliente è la mescolanza tra piatti molto complessi e di origine nobile, come il dolceforte, e ricette in cui è il singolo ingrediente a essere fondamentale, come la zuppa lombarda, composta da fagioli bianchi, olio e pepe. Quando la cucina è molto scarna, se l’ingrediente non è di altissimo livello, non è certo il cuoco a poter rimediare. L’esempio più evidente è sicuramente la bistecca sulla brace. Il grosso lo fanno chi alleva l’animale e chi lo macella. Per il cuoco, c’è ben poco da attribuirsi». (ride)

Intendi la bistecca alla fiorentina?
Paolo: «Non chiamarla così!».

Come no?
Paolo: «A Firenze nessuno la chiama “bistecca alla fiorentina”, o peggio ancora “fiorentina” e basta. Qui in città, si indicano così solo la squadra di calcio o una ragazza del posto. Il turista che mi chiede una “fiorentina” quasi sempre si riferisce al taglio nel filetto, cioè la bistecca con il taglio a T rovesciata in cui da un lato si trova il controfiletto e dall’altro, più piccolo, il filetto. È normale che si sia fissato nell’immaginario collettivo, perché è quello più scenico. Tuttavia, non è il migliore da mettere sulla brace: abbiamo due tempi di cottura completamente diversi tra le parti. Ai miei clienti consiglio sempre i tagli che vanno dalla parte centrale della costata a dove inizia il collo del manzo».

Nella vostra cucina, è importante anche la stagionalità?
Paolo: «Eccome. Il nostro menù è solo a voce proprio per permetterci di privilegiare la stagionalità delle materie prime e la loro tradizione. Ad esempio, il venerdì è storicamente il giorno di penitenza, quindi proponiamo piatti di pesce come il baccalà. La nostra è una cucina spontanea che nasce dal tempo. Ti faccio un esempio: oggi a Firenze piove, dunque è inutile che proponga ai clienti un piatto come la panzanella».

Che rapporto c’è tra i vini e la cucina toscani?
Andrea: «Una simbiosi molto forte. Lo stereotipo del vino nostrano all’estero è che sia un po’ amarognolo, molto secco, con un tannino aggressivo. Sono vini che sfigurerebbero a qualsiasi concorso enologico: nei rossi manca dolcezza, nei bianchi i profumi. Invece, sono amati nel mondo proprio grazie alla simbiosi che hanno con la cucina locale. Pensando al Prosciutto Toscano DOP, sia un bianco molto neutro come la Vernaccia, il Trebbiano o la Malvasia, sia rossi come il Sangiovese e il Ciliegiolo, sia un rosé di Bolgheri si accompagnano perfettamente all’aroma deciso del salume».

Il 2 maggio avete festeggiato i 120 anni dalla nascita della trattoria, un lasso di tempo in cui è stata sempre gestita dalla vostra famiglia. Cosa si prova a esserne la quarta generazione?
Andrea: «Una sensazione strana: sei l’ultimo capitolo di una storia che non hai iniziato tu. In questo momento, sono più gli oneri che gli onori: a causa della pandemia, abbiamo rischiato concretamente di essere quelli che la concludevano, questa storia. Ma abbiamo resistito con la consapevolezza che noi non siamo qui semplicemente a sfamare i clienti, ma a tramandare valori e ricette che altrimenti andrebbero perduti».
Paolo: «Questa trattoria è la nostra casa e il nostro balocchino da custodire. Noi siamo solo un pezzo della storia del locale. Comunque sia, è bello e rassicurante: se la nostra trattoria ha superato gli ultimi 120 anni, compresa l’influenza spagnola, supererà anche questa crisi. La nostra storia continua».