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«LA NORCINERIA? LA PORTO NEL DNA»

Intervista ad Aristide Bucchi, titolare del ristorante «La Padellaccia» e memoria storica della norcineria italiana

di Benedetto Colli

Non dev’essere facile diventare il simbolo di un mestiere o di una città. Figurarsi se lo si diventa di un mestiere e di una città. Aristide Bucchi, classe 1942, nato a Preci ma residente a Firenze da 60 anni esatti, è contemporaneamente il decano dei norcini umbri e uno dei baluardi della cultura fiorentina del centro storico. Nel corso di una carriera iniziata a 15 anni, Bucchi è diventato un punto di riferimento per il settore della macelleria toscana, arrivando a ricoprire un ruolo rilevante nell’Accademia della Fiorentina e nell’Associazione dei Beccai (fiera prosecutrice dell’antica Arte dei Beccai, di cui conserva lo stemma), venendo nominato presidente dell’Associazione macellai della provincia di Firenze e aprendo il ristorante La Padellaccia, dove si può gustare la tradizionale cucina casalinga toscana. Uno status che neanche questa maledetta pandemia, che lo ha costretto a chiudere la sua storica Norcineria dei fratelli Bucchi di via Sant’Antonino (tra la Basilica di Santa Maria Novella e il Mercato centrale, proprio in quelle strade in cui Machiavelli ambienta gli intrighi d’amore della Mandragola), in cui lavorava fin dal 1961, è riuscita a strappargli.

Perché ha deciso di diventare un norcino? Vocazione o necessità?
«È un mestiere che mi porto nel Dna. Sono nato a Preci, poco lontano da Norcia, tra i Monti Sibillini. Un territorio dove ormai da secoli, forse da millenni, si è sviluppata e specializzata la lavorazione del suino. Il nome stesso, “norcino”, lo testimonia. Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, dopo la vendemmia che rappresentava la fine delle attività nei campi, i paesi si svuotavano. Gli uomini se ne andavano per tutta la stagione invernale a lavorare il maiale nel resto del centro Italia, dalla Ciociaria fino all’Appennino Toscano e Ligure, per poi ritornare alle proprie famiglie solo in primavera, quando giungeva l’ora di ricominciare a dedicarsi alla terra. Ho iniziato il mestiere nel 1957, a 15 anni, in una norcineria di Livorno, e seguire questa tradizione mi è sembrata la cosa più naturale del mondo. A tutt’oggi, in città come Firenze, Pistoia e Volterra si possono trovare negozi gestiti da norcini con la mia stessa storia alle spalle».

Come mai quest’arte si è sviluppata proprio tra i Monti Sibillini?
«Non conosco il motivo preciso, ma spesso la spiegazione più semplice è quella più corretta. Di sicuro c’è che i Sibillini sono pieni di querce, e quindi di ghiande. Inoltre, con l’arrivo di San Benedetto da Norcia, quelle vallate si riempirono di monasteri, i cui frati appresero e trasmisero alla popolazione questo tipo di lavorazione».

Dopo un periodo trascorso a Roma, si trasferì a Firenze nel 1961. Com’era la città in quegli anni?
«Completamente diversa. Completamente. Pensi che solo in via Sant’Antonino, oltre a noi che, come dicevo, vendevamo solo salumi, erano presenti anche una bottega esclusivamente di formaggi e una di baccalà e acciughe. Non esistevano ancora i supermercati e al mattino accoglievamo un via vai di popolazione, dalle massaie alla gente dei paesi limitrofi. Un affollamento vitale, bellissimo, alla Amici miei. Oggi ci sono soprattutto negozietti multietnici. I tempi cambiano».

La sua storia, dunque, si incrocia con quella del Prosciutto Toscano DOP negli ultimi 60 anni.
«Negli anni del boom economico c’è stato un aumento dei consumi, compreso quello di prosciutto. Nella mia norcineria, per molto tempo, abbiamo venduto soltanto salumi, nient’altro. Stiamo parlando di tre o quattromila prosciutti l’anno, solo nel nostro negozio. Pensi che allora le persone ci chiedevano espressamente del “prosciutto salato”, in totale controtendenza con quanto accade oggi. Erano altri tempi e altri sapori. Da lì a breve, il consumo del prosciutto sarebbe passato dall’essere principalmente indirizzato agli adulti, soprattutto di campagna, al diventare un fenomeno che includeva anche bambini, donne e anziani di città, data la salubrità del Prosciutto Toscano DOP. I produttori del Consorzio hanno dimostrato un’abilità eccezionale nell’andare incontro alle nuove richieste del pubblico senza correre mai il rischio di snaturare il prodotto».

Perché ha deciso di chiamare il suo ristorante La Padellaccia?
«La padellaccia era il primo piatto che in Umbria, regione molto affine alla Toscana dal punto di vista culinario, si preparava subito dopo la macellazione del maiale. L’ho scelto come omaggio alle mie radici nursine. Nella nostra cucina è fondamentale la tradizione toscana. Ovviamente siamo specializzati nella carne, in particolare nella bistecca alla fiorentina. Un piatto che, purtroppo, in una città turistica come la nostra, sempre più spesso viene proposto in una versione scadente. Ultimamente molti si sono improvvisati in questo mestiere. Per farle capire: abbiamo inaugurato La Padellaccia 15 anni fa, e da allora, nel raggio di 400 metri, hanno aperto un’altra quarantina di ristoranti. Per fortuna, adesso il Comune ha bloccato le licenze per nuovi ristoranti nella zona storica della città. Certo, c’è un po’ l’impressione che abbiano chiuso la stalla quando i buoi erano già scappati, ma meglio tardi che mai».

Qual è la caratteristica principale della cucina fiorentina?
«Le caratteristiche sono due: la “povertà” delle materie prime, che richiedono abilità nella preparazione e cotture lunghe, e la passione per i sapori forti».

Quanto ha colpito duramente l’emergenza Covid?
«La fine della Norcineria è stata una ferita che non sarà facile rimarginare. Più che il blocco totale del primo lockdown, sono state le chiusure dello scorso autunno a metterci in ginocchio. In estate abbiamo registrato una grande voglia di tornare al ristorante, ma adesso temiamo come possa evolvere la situazione in inverno. Ci sono state troppe chiacchiere da parte dei media e delle autorità e poche azioni concrete».

Come vede il futuro della norcineria?
«Sia la salumeria che la macelleria continuano a difendersi bene. Il consumo di carne non è mai venuto meno, soprattutto a Firenze. Anche la qualità della materia prima resiste. Per lavoro ho girato l’Europa, ma difficilmente si riesce a trovarla buona come quella che si lavora qui. Anzi, presentarsi come fiorentini è spesso un biglietto da visita chiarissimo anche per gli stranieri: o ci date della carne ottima, o non fateci proprio perdere tempo! (ride)».